“Escono dalle fottute pareti”1
Giappone. Il treno si muoveva veloce, attraversando quelli che un tempo erano terreni agricoli e che ora si erano trasformati in una lunga fila di edifici privi di personalità che collegavano l’aeroporto di Narita alla stazione di Tokyo. Le nuvole nere cariche di pioggia di un umido ottobre contrastavano con le risaie verde smeraldo che resistevano ancora alla furia modernizzante del Giappone contemporaneo. Dal finestrino vedevo un gruppo di ragazzi che si allenavano a baseball con la serietà di giocatori professionisti. Il treno arrivò alla stazione di Tokyo, puntuale come sempre, e si fermò proprio davanti alle linee dipinte sulla banchina che segnalavano l’apertura delle porte dei vagoni. Le porte scorrevoli si aprirono e l’equipaggio di cabina si inchinò per salutarci mentre scendevamo, carichi dei nostri bagagli. Una squadra di addetti alle pulizie era pronta per mettersi al lavoro aspettando che l’ultimo dei passeggeri scendesse dal treno e, in pochi minuti, avrebbe pulito tutti i vagoni, rispettando la tabella di marcia al secondo.
“Dal momento in cui si svegliano si dedicano a raggiungere la perfezione in ogni gesto.” Capitano Nathan Algren, “L’ultimo samurai”2
La visione del Capitano Algren è forse troppo idealizzata (in fondo è sempre un film) ma non è troppo lontana dalla realtà. Lo iamatologo Boye Lafayette De Mente afferma che il Giappone è un Paese kataizzato3. Quindi, non solo nelle arti marziali dove il termine kata (型 o 形), che significa forma, è più usato o nelle discipline che terminano in -Do (shodo, chado, ecc.) come molti sostengono, ma anche nelle azioni quotidiane.
Che si tratti di allenarsi a baseball4,
o pulire un vagone ferroviario,
o inchinandosi,
o confezionare pacchi,
ognuno segue una procedura esatta insegnata fino a raggiungere la precisione desiderata, quando l’intenzione si trasforma in azione e la forma diventa sostanza. Questo è il vero significato di kata (型 o 形). Siamo ammirati da questa serie di gesti sincronizzati pensando di assistere a una mera rappresentazione superficile, quando invece ci viene mostrata l’essenza stessa del pensiero giapponese in azione.
Ciò è ancora più vero nella pratica dello iaido, dove l’esecuzione del kata può essere scambiata per pura estetica e la ricerca del movimento perfetto come fine a se stessa. Questa è una trappola in cui anche noi praticanti rischiamo di cadere. La forma potrebbe trasformarsi in pura formalità se dimentichiamo il significato dei gesti che stiamo compiendo. Dobbiamo sempre ricordare che il kata è il fondamento indispensabile senza il quale l’intero edificio non starebbe in piedi e, la necessaria e continua ripetizione dei movimenti, se fatta meccanicamente, diventa noiosa e inutile. Perciò dobbiamo sempre prestare attenzione (Zanshin) affinché la perfezione possa essere unita all’efficacia del movimento. Dobbiamo sapere che il kata che stiamo praticando ha una ragione d’essere e che la serie di movimenti, che dobbiamo imparare e continuare a ripetere fino allo sfinimento, ci servono per un preciso scopo pratico che inevitabilente si è perso nel tempo. E qui sta la difficoltà dell’arte dello iaido. Ad esempio, contrariamente all’attività del tutsumi (包), l’arte di confezionare, che ha un evidente utilizzo pratico, nello iaido non dobbiamo solo immaginare cosa stiamo facendo ma anche perché, dato che, una volta usciti dal dojo, non possiamo portare la spada con noi. O no?
- “Aliens” James Cameron (1986).
- “L’ultimo samurai” Edward Zwick (2003).
- “Japan. A Guide to Traditions, Customs and Etiquette” – Boye Lafayette De Mente (2018).
- “You Gotta Have Wa” Robert Whiting (2009).